domenica 29 gennaio 2012

mercoledì 28 settembre 2011

Cause e conseguenze della crisi finanziaria mondiale

Quali saranno le ripercussioni della recente e grave crisi del mondo finanziario sull’economia reale e sul mondo del lavoro? E quali le cause e i motivi delle difficoltà dei giornalisti nel garantire un’informazione il più possibile libera e responsabile, accessibile e comprensibile ai più? Ne abbiamo parlato con Ferruccio de Bortoli, direttore responsabile del Sole 24 Ore, che terrà una conferenza sull’economia italiana all’Università di Zurigo il 6 novembre prossimo.

Cominciamo con il trattare subito un argomento che in questo ultimo periodo sta interessando il mondo intero: la crisi finanziaria. A suo avviso quali sono le ripercussioni che tale crisi avrà sulla nostra economia?

A tal riguardo bisogna innanzitutto fare un distinguo e ricondurre le ripercussioni che questa crisi finanziaria avrà sulla nostra economia a due ordini di motivi. Intanto è da considerare, in primis, l’impatto che si avrà sull’economia reale e sui consumi. Io ritengo che i Paesi (in particolare l’Italia e la Germania), che hanno una più forte industria manifatturiera, riusciranno a reggere maggiormente questa crisi; laddove le istituzioni finanziarie siano riuscite a mantenere un legame più forte con il territorio, (e ciò è avvenuto in molti Paesi europei), esse riusciranno a non trasmettere alle imprese le difficoltà di credito e di finanziamento cui sono sottoposte in questo momento.

La seconda sfida riguarderà il modo attraverso il quale vivremo questa nuova fase dell’economia mondiale, fase che sarà più legata al lavoro e al prodotto fisico, più attenta ai veri valori della società e della vita, in particolare il lavoro, e meno disposta ad accettare disparità di retribuzione tra la finanza e l’industria.
Insomma, si creerà una nuova etica del lavoro ed è per questo che la grande sfida non è tanto quella di gestire al meglio la ricaduta di questa crisi finanziaria, quanto quella di riscrivere bene le regole della situazione di normalità che speriamo di poter creare nei prossimi anni salvando l’economia di mercato, le regole di mercato e il rapporto corretto tra la politica e l’economia.

A proposito di lavoro, in America si sono già registrati i primi effetti della crisi e tanti lavoratori sono adesso disoccupati; anche noi dovremo aspettarci delle conseguenze simili?

Il problema è che noi non sappiamo di quanto diminuiranno i consumi e di quanto rallenteranno la domanda interna e quella internazionale. Le economie europee sono in grado di reggere meglio i contraccolpi della crisi finanziaria grazie all’euro, che si è dimostrato uno scudo efficace, tant’è vero che i due Paesi che sono rimasti fuori dall’euro, la Danimarca e la Svezia, stanno pensando di ricongiungersi con l’Unione monetaria europea. L’industria e i prodotti dei nostri Paesi hanno trovato accoglienza e preferenza anche presso i nuovi Paesi emergenti, le nuove classi medie che si sono create nei Paesi arabi e nei Paesi del Sud asiatico; il nostro problema sarà quello di specializzarci sempre più, recuperare competitività, soprattutto competitività del lavoro e riuscire a dare (e questa credo che sia una particolare e specifica attitudine italiana), un prodotto legato ad un servizio che sarà sempre di più ritagliato sulle esigenze del consumatore finale.

Condivide le misure che il governo italiano ha approvato per affrontare questa grave crisi?

Il governo italiano è intervenuto tempestivamente nell’assicurare la garanzia dei depositi dei risparmiatori italiani che, tra l’altro, era già più alta rispetto a quella garantita da altri Paesi europei, considerato che i depositi italiani sono garantiti fino a 103.000 euro. Ha poi garantito il finanziamento per le banche, d’intesa con gli altri Paesi europei e la Banca Centrale Europea, è pronto a ricapitalizzare quelle banche che ne avessero necessità, nulla ha ancora fatto per certe banche italiane che, con l’eccezione di Unicredit, non hanno avuto, finora, particolari problemi. Credo che comunque si porrà il problema di intervenire anche in tal senso, per evitare che le banche italiane possano essere ulteriormente svantaggiate rispetto a quelle straniere come, ad esempio, quelle francesi ed inglesi che riceveranno un sostanzioso aiuto in conto capitale da parte delle casse statali.

Analizzando le cause della crisi che ci troviamo ad affrontare, Lei ha accennato, in alcuni suoi interventi, ad una “finanza autoreferenziale”. Ci vuole spiegare a cosa si riferisce?

Tra le cause che hanno contribuito al crollo dei mercati finanziari delle banche, in particolare degli Stati Uniti, c’è anche il fatto che i manager, in particolare quelli del settore bancario, delle banche di investimento, hanno spesso dimostrato una scarsissima lungimiranza e sono stati in qualche modo ingannati dalla loro stessa sicurezza.
L’esempio che io trovo più qualificante è quello del vertice della Compagnia di assicurazione più grande al mondo, l’AEG, che ha scoperto nella tarda serata di una domenica di non avere la liquidità sufficiente per arrivare al mercoledì successivo; e questo, ripeto, da parte della compagnia di assicurazione più grande al mondo che, si ritiene, debba essere abituata a valutare i rischi.

Secondo Lei, quale potrebbe essere il sistema economico di riferimento in questa fase?

Credo che in questa fase gli esperimenti di economia sociale di mercato che sono fatti soprattutto in Germania, ma anche nella stessa Francia, possono essere degli esempi utili per capire che bisogna procedere nel rispetto della libera iniziativa e dell’economia di mercato, per far sì che emergano soggetti finanziari ed economici che hanno un maggiore rispetto del contesto sociale nel quale vivono.

Passando un attimo all’informazione, parlando dei giornalisti Lei ha affermato: “Siamo diventati servi e concubini del potere, facciamo più parte del gioco, vogliamo fare politica, influenzare la formazione dei nuovi partiti (…) mentre, invece, dovremmo ritornare a fare i giornalisti”. E’ una visione alquanto drammatica della stampa italiana…

Questa è una frase estrapolata dal contesto di una serie di risposte che ho dato in un libro dedicato all’informazione (L’informazione che cambia, Editrice La Scuola, collana «Interviste» diretta da Paola Bignardi; ndr); in questo libro io ho più volte difeso non solo la funzione ma anche i meriti che la stampa, in particolare quella economica e non soltanto italiana, ha avuto nel promuovere il mercato, la concorrenza, il merito, una certa democrazia economica e la democrazia delle regole.
Al di là di questi meriti, che io ho sottolineato, ho comunque segnalato alcuni rischi e alcuni pericoli. Il principale di questi rischi è che il giornalista finisca per non fare solo ed esclusivamente il proprio mestiere, ma che diventi troppo intimo amico, e persino complice, delle proprie fonti, e quindi non abbia più la necessaria terzietà e la necessaria libertà per poter descrivere al lettore come stanno esattamente le cose.

Il suo rimprovero mi pare vada anche agli editori…

Gli editori sono parte di questo gioco e la mia critica è rivolta al fatto che essi pensano che la libertà, l’indipendenza e la competenza dei giornali non siano elementi fondamentali per il livello e l’importanza dei giornali medesimi, che non siano, in sostanza, fattori importanti; gli editori pensano anche che qualche volta i giornalisti siano fungibili; opinione che non condivido, anzi; i giornalisti sono specializzati e la loro qualificazione ed indipendenza vanno rispettate.
Gli editori potrebbero fare meglio il loro lavoro avendo un po’ più di coraggio editoriale, nel senso di fare un po’ di più prodotti diretti al lettore, piuttosto che la pubblicità dei loro affari personali.

Ma in un mondo così fortemente influenzato dalla politica e dal potere in generale, Lei pensa che ci sia ancora spazio per una comunicazione veramente libera e responsabile?

Credo che ci sia spazio e che questo spazio debba essere più conquistato dagli stessi giornalisti e dagli stessi editori e non lasciato, invece, allo stesso potere politico ed economico.

Lei ha criticato il disegno di legge sulle intercettazioni: pensa che limiti il diritto del lettore ad essere informato e il diritto del giornalista di informare?

Quando si tratta di regolare situazioni nelle quali alcune informazioni di natura esclusivamente privata, vengono raccolte all’atto di un’inchiesta con degli elementi pubblici, sono d’accordo sul fatto che esse non debbano comparire sui giornali; quindi, non ritengo sbagliato vietare questo tipo di intercettazioni e, soprattutto, quel tipo di diffusione delle notizie in questione.
Ritengo, invece, molto pericoloso che si voglia impedire di dare notizia delle inchieste in corso aspettando l’udienza preliminare, poiché questo significherebbe ridurre il livello d’informazione di un Paese.

Il dibattito e l’informazione in merito alle scelte economiche di un Paese è, per i più, di non immediata comprensibilità, perché spesso gli economisti usano un linguaggio ermetico, quasi ostile. Si potrebbe rendere anche questo tipo d’informazione comprensibile un po’ più a largo raggio o, vista la complessità della materia, il linguaggio accademico usato dagli economisti è inevitabile?

No, è evitabilissimo; occorerebbe una maggiore attenzione da parte di giornalisti e di esperti che si occupano di economia e di finanza, che dovrebbero scrivere un po’ di più per i lettori, e in particolare per i lettori che non hanno le loro stesse conoscenze, e un po’ di meno per le loro fonti o per i loro colleghi, e di giornali e di università.

A proposito di università, lei ha dichiarato che preferirebbe che le università fossero pagate esclusivamente dalle famiglie. Ma non pensa che così resterebbe tagliata fuori dal diritto allo studio un’ampia fascia di società?

Io ho sostenuto che spesso l’idea che l’università sia totalmente gratuita finisce per svalutarla.
Credo che in qualche modo si debba ridare importanza all’università e all’istruzione universitaria facendo pagare la buona istruzione, pur garantendo, con l’uso più largo di borse di studio, il sostentamento, così come dice la Costituzione italiana, degli studenti capaci e meritevoli provenienti da famiglie non agiate.

giovedì 15 settembre 2011

Soldi e famiglia, l’itinerario della “spesa perfetta” nelle città italiane

Comprare la carne a Palermo, la birra a Bologna e il latte fresco a Perugia. Se ci si potesse spostare con il pensiero, si potrebbe fare la spesa in più città d'Italia e acquistare ogni singolo prodotto nel posto in cui conviene di più. Sarebbe un bel risparmio, peccato che il teletrasporto non sia stato inventato. Immaginare però che quest'invenzione esista non costa nulla. Yahoo! Finanza l'ha fatto e sulla base dei dati dell'Osservatorio prezzi del ministero dello Sviluppo economico, ha ricostruito, città per città, l'itinerario virtuale da percorrere per fare la spesa perfetta, ovvero un carrello ideale che raccoglie tutti i beni alimentari di più largo consumo al prezzo minore in circolazione. L'elaborazione, naturalmente, fa riferimento ai costi minimi dei prodotti riscontrati nei vari capoluoghi di provincia presi in considerazione.

Se il tour alla ricerca dei prezzi più bassi comincia dal Nord, bisogna fermarsi a Venezia per l'acqua, e il riferimento non è a quella della Laguna. Pur essendo considerata in genere una città molto cara è qui che si può acquistare la più conveniente cassa da sei bottiglie da un litro e mezzo di acqua minerale: costa 63 centesimi. Oltre all'acqua, il capoluogo veneto è uno dei tre migliori posti dove comprare i biscotti: 79 centesimi al chilo. Le altre due città dove i frollini si trovano allo stesso prezzo sono a pochi chilometri di distanza: Padova e Bolzano. Rimanendo in zona,Trento merita una sosta per procurarsi un pezzo di parmigiano reggiano, visto che solo qui e a Milano il formaggio italiano più conosciuto al mondo costa 10,90 euro al chilo.

Per trovare la confezione di caffè tostato più economica del Paese bisogna scendere un po' più giù e andare a Verona, dove il prezzo minimo è di 2,58 euro al chilo. Se si continua verso ovest, si può passare da Bergamo per le uova, dal momento che la città lombarda è uno dei dieci capoluoghi di provincia in cui costano meno: per mezza dozzina si pagano solo 65 centesimi. Per aggiungere merce al carrello perfetto, non si può non passare da Milano, una metropoli che detiene diversi primati in termini di risparmio sui prodotti alimentari, anche se li condivide tutti con altre città. All'ombra del Duomo, per esempio, si vende lo yogurt meno caro della Penisola: 125 grammi costano 19 centesimi, un record condiviso con Bologna.

Anche Torino è un centro in cui si possono fare alcuni acquisti della spesa ideale. Sotto la Mole c'è infatti la possibilità di avere il vino da tavola (59 centesimi al litro) e la farina di frumento (29 centesimi al chilo) al costo più basso d'Italia. Ma anche nel caso del capoluogo piemontese i medesimi primati di risparmio si possono riscontrare anche in altre città italiane. Teletrasportandosi in Emilia, a Parma si va a prendere lozucchero: è il più economico d'Italia (58 centesimi al chilo). Dove comprare il panetto di burro meno costoso? A Bologna: costa 3,56 euro al chilo. Se si considera soltanto quella prodotta in Italia, nel capoluogo emiliano si trova anche la birra più economica del Paese: 80 centesimi al litro. Per comprare invece una birra di marca estera spendendo la minore cifra possibile (80 centesimi al litro) occorre scendere fino a Reggio Calabria.

Ritornando verso il Centro-Nord una tappa obbligata del risparmio è Firenze, la città che offre i prezzi più vantaggiosi per il pane (1 euro al chilo, così come a Bari), la carne fresca di maiale (3,8 euro al chilo), ipomodori pelati (64 centesimi al chilo) e il fior di latte di mucca (3,52 euro al chilo). Perugia, invece, è il posto migliore per acquistare il riso (89 centesimi al chilo), il latte fresco (65 centesimi al litro) e lemerendine confezionate (2,64 euro al chilo). Per spendere il meno possibile sull'olio extravergine d'oliva(2,89 euro al litro) si può scegliere tra ben quattordici città. Alcune di queste sono sull'Adriatico: Trieste, Ancona, Rimini e Bari. Solo quest'ultima, però, può vantare altri record in fatto di convenienza dei prezzi. Da buona città di mare, il capoluogo pugliese è il posto più vantaggioso per acquistare prodotti ittici come il tonno all'olio d'oliva (4,94 euro al chilo) e i filetti di platessa surgelati (5,9 euro al chilo). A sorpresa, però, Bari è anche la città dove si trova il cioccolato in tavolette meno dispendioso d'Italia: per 100 grammi si spendono solo 37 centesimi.

Per concludere la spesa più al risparmio d'Italia bisogna fermarsi in altri due grandi centri del Meridione: Napolie Palermo. Nei negozi della città partenopea va comprato il latte in polvere per neonati: lo si trova a 9,67 euro al chilo. Il capoluogo siciliano, invece, è il posto che offre i prezzi più convenienti per alcuni dei prodotti più classici delle tavole italiane: la pasta (quella di semola di grano duro costa 49 centesimi al chilo), la carne di vitello (8,49 al chilo) e il prosciutto crudo (10,27 euro al chilo).

Ora il carrello ideale è pieno: ci sono 27 prodotti. E' il momento di passare alla cassa. Lo scontrino della spesa perfetta? Se per ciascun alimento si calcolano approssimativamente le quantità medie acquistate dagli italiani in una singola spesa, l'importo complessivo è di 49,40 euro. Altrimenti, se si considerano le quantità menzionate sopra, il prezzo totale sarebbe comunque relativamente basso: 78,50 euro. In Italia, non si può trovare niente di meglio.

La spesa virtuale è terminata, ma il viaggio tra i prezzi degli alimentari in Italia non finisce qui. Dai dati dell'Osservatorio emergono anche elementi diversi, in grado di far comprendere meglio cosa significa fare la spesa nelle città italiane, soprattutto in questo periodo di crisi economica. Si può notare, ad esempio, che la località dove in media si paga di più per fare la spesa è Treviso. In questa città, acquistando a un prezzo medio ognuno dei 34 beni alimentari di maggiore consumo in Italia, il conto finale sarebbe di 238,65 euro. Il capoluogo di provincia dove invece è più ampia la forbice tra i costi più alti e quelli più bassi è Milano: prendendo come riferimento ancora una volta il paniere dei 34 alimenti più diffusi, la differenza tra la somma dei prezzi massimi (449,1 euro) e quella dei minimi (121,3 euro) è di ben 327,8 euro. In altri termini, chi entra in un supermercato meneghino può trovarsi di fronte a prezzi molto diversi per lo stesso tipo di prodotto. Rimanendo in tema di grandi città, salta all'occhio un dato: né RomaGenova compaiono nella lista dei capoluoghi dove è possibile trovare almeno un prodotto ai prezzi più bassi. Entrambe, invece, sono i luoghi più cari per comprare alcuni tipi di alimenti. Nella Capitale, per esempio, lo zucchero può arrivare anche a 1,89 al chilo e nella città ligure, una birra prodotta in Italia può costare anche 4,55 euro: cifre così alte non si riscontrano in nessun'altra località del Belpaese. Curioso, inoltre, è il caso di Venezia. Pur essendo, come si è visto, la città in cui un consumatore può pagare una cassa di bottiglie di acqua minerale al prezzo più basso è anche quella dove può comprarla al prezzo più caro di tutto il Paese, 6 euro.

Procedendo per aree geografiche più che per città, si possono osservare alcuni fenomeni piuttosto significativi. Un esempio? Il latte in polvere ha un costo medio particolarmente alto a Treviso (20,95 euro al chilo), mentre basta rimanere in Veneto e spostarsi a Verona o a Venezia per trovarlo a prezzi decisamente più abbordabili, rispettivamente 14,61 e 17,8 euro. Viceversa, se un chilo di prosciutto cotto non ha un costo medio troppo elevato a Bologna (20,98 euro) in due città molto vicine al capoluogo emiliano, Ferrara e Parma, il prezzo dell'insaccato è più alto di quasi un quinto: 24,01 e 24, 69 euro.

Se invece si analizzano i dati dell'Osservatorio in base ai singoli prodotti, si trovano alcuni riscontri sorprendenti. In media, i filetti di platessa surgelati più costosi si trovano a Caserta (19,61 euro al chilo) e a Napoli (18,98 euro), anche se quest'ultima è una delle maggiori città portuali italiane. La carne fresca di bovino adulto con il prezzo medio più elevato d'Italia (21,02 euro al chilo) si trova a Rimini, una città molto richiesta dal turismo di massa anche perché il costo medio dei prodotti non è alto come in altre destinazioni marittime privilegiate dai viaggiatori più facoltosi. In ultimo, il riso, che si fa pagare caro soprattutto ad Aosta (in media, 3,1 euro al chilo), nonostante il capoluogo non disti molto dal Piemonte, una delle poche regioni italiane in cui si produce questo cereale.

Tassa di concessione governativa sui cellulari: come chiedere il rimborso

La tassa di concessione governativa sui telefoni cellulari con utenza in abbonamento è stata dichiarata illegittima da due sentenze della commissione tributaria regionale del Veneto dello scorso gennaio: ora gli utenti possono chiederne il rimborso.

La class action

La prima associazione di consumatori che ha lanciato una sorta diistanza collettiva per gli intestatari di un abbonamento di telefonia mobile che vogliono farsi restituire il "maltolto" è stata l'Adoc (Associazione per la difesa e l'orientamento dei consumatori). L'organizzazione, che da anni invoca l'abolizione della tassa, ha messo a disposizione sul proprio sito internet unmodello di lettera di diffida (clicca per scaricarla) da inviare tramite raccomandata con ricevuta di ritorno alla propria compagnia telefonica, allegando una copia delle fatture e delle ricevute di pagamento.

Chi può chiedere il rimborso
A presentare richiesta di risarcimento può essere chiunque abbia sottoscritto un abbonamento (e non un piano ricaricabile) con un gestore telefonico di rete mobile. La sentenza della commissione tributaria. Secondo il presidente dell'Adoc, Carlo Pileri, chiedere il rimborsoconviene soprattutto per chi possiede più utenze.

Quanto può essere restituito
Il massimale del rimborso può arrivare fino a 464,76 euro per le imprese e gli enti locali e fino a 186 euro circa per i privati. In sostanza, si può recuperare quanto si è indebitamente versato allo Stato per tre anni. L'Unione Consumatori, un'altra associazione che sta studiando una class action per la restituzione dei soldi, fa notare però che se lo Stato facesse ricorso in Cassazione e lo perdesse, il pagamento di questa tassa potrebbe essere riconosciuto come "indebito" (e non solo "erroneo") e questo darebbe agli utenti la possibilità di fare una richiesta di risarcimento che va indietro di dieci anni.

Quanto si pagava
Finora la tassa di concessione governativa era prevista per tutti gli intestatari di abbonamenti di telefonia mobile. I privati dovevano pagare sul loro conto telefonico 5,16 euro al mese, mentre i titolari di utenze business (enti locali e aziende) erano costretti a versare un importo ancora più salato: 12,91 euro mensili, anche se il costo poteva essere dedotto all'80% nella dichiarazione di redditi.

La polemica sul "balzello"
L'imposta è diventata oggetto di dibattito e polemiche anche prima del pronunciamento della commissione tributaria regionale perché la sua abolizione avrebbe dovuto avvenire già anni fa. Il balzello, come era stato prontamente etichettato, è stato introdotto nel 1995 come estensione del dpr sulla "Disciplina delle tasse sulle concessioni governative" ai telefonini in abbonamento, all'epoca considerati "beni di lusso". Ma l'adozione nel 2003 del Codice delle comunicazioni elettroniche, che recepiva le direttive comunitarie sulla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, aveva di fatto abrogato la norma, tant'è che il governo nel 2007 si era impegnato a cancellare la tassa. Tuttavia, considerata l'entità del gettito che garantiva (750 milioni di euro all'anno), la decisione era stata rimandata a data da destinarsi.

I primi risultati delle richieste di risarcimento
Stando a quanto dichiarato da alcuni utenti, ci sarebbero dei gestori telefonici che hanno recepito le sentenze della commissione tributaria del Veneto e hanno già cancellato la tassa di concessione governativa dalle voci di spesa sul conto che recapitano ai loro abbonati.

Il parere delle imprese: il rimborso potrebbe non essere concesso
Di rimando però Assotelecomunicazioni-Asstel, l'associazione di Confindustria che riunisce le compagnie telefoniche, fa notare che la decisione della commissione tributaria riguarda un'amministrazione pubblica (cioè,gli enti locali) e non i cittadini: in altri termini, la sentenza non sarebbe interpretabile in via estensiva anche per i privati. I rappresentanti delle imprese affermano quindi che gli operatori di telefonia mobile, in quanto "meri ausiliari della riscossione" e obbligati a pagare la tassa all'erario, continueranno ad applicare la tassa ai privati a loro volta. In base a questa prospettiva, quindi, il rimborso richiesto dagli utenti potrebbe anche non essere concesso.

giovedì 28 luglio 2011

L'euro che fine farà....

"Nessuno deve farsi illusioni..la situazione nell'Eurozona è molto seria e un fallimento nella gestione dei debiti sovrani avrà sicuramente ripercussioni a livello globale". Di frasi apocalittichesu quello che sta succedendo nelle ultime settimane non si contano ormai più, ma la cosa diventa più rilevante quando a pronunciarle è il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, che in questo modo si è allineato ai timori espressi dal Fondo monetario internazionale. Cosa può succedere a questo punto? L'euro può saltare davvero e, comunque, come comportarsi con i propri risparmi per limitare i pericoli? Proviamo a capirlo analizzando i dati più recenti e le prossime scadenze.

[L'Europa approva un 'piano Marshall' per la Grecia. Salverà l'euro?]

La posizione della Commissione Ue
La posizione assunta da Barroso, che ha immediatamente provocato una reazione negativa dei mercati, è stato soprattutto un richiamo al senso di responsabilità dei governanti europei affinché smettano con la scaricabarile e si facciano carico della crisi greca trovando una posizione condivisa. Infatti, il presidente della Commissione Ue ha ricordato che l'euro "è un nostro patrimonio importante", aggiungendo che occorre uno sforzo per la sua stabilità, "altrimenti il giudizio della storia sarà duro".

Lo stato di salute della moneta unica
Per capire qual è lo stato di salute dell'euro basta dare uno sguardo ai grafici [
vai al cambio euro/dollaro]: se a inizio maggio la moneta unica era arrivata a sfiorare a più riprese 1,49 contro il dollaro, ora viaggia intorno a 1,40-1,42. In calo, dunque, contro una moneta che è sotto pressione per via dei dissidi tra Democratici e Repubblica sul deficit federale, con lo spettro del default che si aggira.

[Gli Stati Uniti tra i paesi a rischio default]

Con tutto ciò che questo comporta per l'economia italiana: considerato che le materie prime sono denominate in dollaro e che noi le importiamo in gran quantità, questo significa un aumento dei prezzi per carburanti, alimentari e così via. Il confronto si fa più pesante con il franco svizzero [vai al cambio euro/franco svizzero], divenuto ormai moneta rifugio per quanti diffidano di una soluzione della crisi in tempi brevi. A fine 2010 l'euro veniva scambiato a 1,30 rispetto alla moneta elvetica, attualmente si aggira intorno a quota 1,15.

Tutta colpa della speculazione?
Nei discorsi di politici e analisti si sente spesso puntare l'indice contro la speculazione internazionale. La realtà è che dietro questa parola si nascondono investitori professionali che movimentano enormi somme di denaro in base alle proprie convinzioni: se, quindi, decidono di vendere euro e acquistare franchi svizzeri significa che sono convinti di anticipare in questo modo i trend dell'economia reale.

I rischi reali
Nonostante le forti pressioni delle ultime settimane va comunque detto che l'euro non è crollato e anche gli attacchi all'Italia sono stati in parte riassorbiti nelle ultime sedute, dopo che ha cominciato a prendere corpo l'ipotesi di una posizione condivisa a livello europeo. Detto questo, resta un problema di fondo: quello di un'area del mondo che cresce lentamente, molto meno rispetto ai Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e agli stessi Stati Uniti. Un'aggregazione economica che manca tuttavia di guida politica e che, quindi, non riesce a esprimersi con una sola voce quando si pongono questioni di portata globale.

Come investire
Per il
piccolo risparmiatore non resta che fare un ceck-up periodico del proprio portafoglio e, se crede in una debolezza strutturale della moneta unica europea, diversificare puntando su altre valute. La strada più semplice consiste nell'acquistare titoli azionari di altri paesi: ad esempio i principali broker italiani consentono di fare trading sui titoli statunitensi ad alta capitalizzazione. Un'altra strada, più prudente, consiste nell'acquistare quote di fondi o etf denominati in valuta estera. Senza mai dimenticare che un'esposizione eccessiva in questa direzione può aumentare sensibilmente il rischio dei propri investimenti, aggiungendo al rischio classico del saliscendi dei titoli, quello legato alla fluttuazione della valuta prescelta rispetto all'euro.




lunedì 4 luglio 2011

I costi della vita in Europa

Quanto costa vivere nei Paesi dell'Ue? Per calcolarlo si può fare riferimento ai dati pubblicati da Eurostat. Mettendo a paragone iprezzi dei beni e dei servizi nei Ventisette si può scoprire ad esempio che in Italia il costo della vita è di poco superiore alla media. Il sito di informazione Linkiesta.it ha elaborato le statistiche di Eurostat e ha fatto un confronto, Paese per Paese, dei prezzi in generale e di quelli relativi ad alcune delle principali categorie di spesa (alimentari, alcol e tabacchi, abbigliamenti, trasporti, ristorazione e hotel, elettronica di consumo).

Ecco quindi quanto costa fare la spesa in Europa?

L'elaborazione de Linkiesta.it ha fatto pari a 100 il costo medio dei beni e dei servizi nei 27 Stati dell'Unione Europea. L'analisi, effettuata soltanto in termini relativi e non in valori assoluti, è partita dal costo della vita in generale, prendendo in considerazione, come riferimento, un paniere di 2.500 beni di consumo e servizi. Il Paese in cui il costo della vita è esattamente pari alla media dei Ventisette è la Gran Bretagna. Il valore è infatti uguale a 100. Lo Stato in cui la vita è più cara è invece la Danimarca, che raggiunge un punteggio di 143.

Quindi, se per esempio un consumatore fa la spesa in un supermercato britannico e spende 100 euro, per acquistare gli stessi prodotti in terra danese dovrebbe spenderne 143. Per quanto riguarda il costo del vivere in generale, l'Italia si colloca di poco, quattro punti, al di sopra della media Ue: il punteggio del nostro Paese è 104. Tra gli Stati più cari, dopo la Danimarca, ci sono la Finlandia (123), il Lussemburgo (120) e laSvezia (120). Quelli in cui vivere costa meno sono invece i Paesi dell'Est: Bulgaria (51), Romania (59) e Polonia (63), molto al di sotto della media.

Per quanto riguarda cibo e bevande analcoliche, la situazione non è molto diversa. Il paese più caro da questo punto di vista è ancora la Danimarca, con ben 36 punti al di sopra della media. Al secondo posto però spicca l'Irlanda (120 punti). Nel Paese definito fino a pochi anni fa "la Tigre Celtica", non è quindi una buona idea fare acquisti alimentari. In questa graduatoria, l'Italia si piazza ancora una volta intorno alla media europea con un punteggio di 106: sei punti in più rispetto al valore medio. Nel Belpaese, comprare prodotti alimentari è più dispendioso che in altri Stati come la Gran Bretagna (102) o l'Olanda (96).

Lo scenario relativo all'alcol e ai tabacchi è completamente diverso. I prezzi maggiori per sigarette e alcolici si riscontrano in Irlanda (170 punti) e nel Regno Unito (142). In Italia, invece, i vizi sono un po' più abbordabili: il punteggio del nostro Paese è 104. Anche in questo caso, gli Stati in cui conviene di più fare acquisti del genere si trovano nell'Europa orientale. Nel più economico, la Romania (64 punti), chi compra tali prodotti spende quasi la metà rispetto alla media europea.

Per chi vuole fare shopping di abiti è consigliabile evitare la Svezia (126 punti), il Paese più caro per quanto concerne l'abbigliamento. In Italia (101 punti), invece, una delle patrie della moda per eccellenza, i prezzi di vestiti, borse e scarpe sono molto simili a quelli medi presenti nell'Ue. Agli stessi livelli ci sono gliStati baltici come Estonia (100) e Lettonia (100).

Tra i 27 Paesi dell'Ue, i costi dell'elettronica di consumo, dai cellulari all'iPad, non sono molto dissimili tra di loro. Se si escludono Svezia (115), Danimarca (113) e Malta (110) dove i prezzi superano la media europea di 10-15 punti, i prezzi dei prodotti hi tech sono più o meno gli stessi in tutta Europa. L'Italia (106) è alquinto posto tra i Paesi dove le tecnologie di consumo costano di più. Ma il divario con gli altri Stati non è molto ampio: in Gran Bretagna (98), per esempio, che è al sedicesimo posto, i costi sono di soli due punti al di sotto della media; la Germania (96), dove invece i prezzi sono più bassi di quattro punti rispetto ai valori medi, è al ventunesimo posto.

Passando ai costi dei mezzi di trasporto privato, quindi soprattutto automobili e carburante, si può osservare che l'Italia è perfettamente in linea con la media europea, mentre in Danimarca, per esempio i prezzi sono quasi insostenibili visto che superano di ben 67 punti i valori media. A sorpresa, il secondo Paese più caro per quanto riguarda i trasporti privati è il Portogallo (120 punti), uno Stato che non figura ai primi posti in nessun'altra categoria.

Un'altra voce di spesa che pesa sul bilancio dei cittadini europei è quella relativa a ristoranti e hotel. Anche in questo caso, i costi più alti si osservano nei Paesi scandinavi come Danimarca (153), Svezia (138) e Finlandia (129). Ma anche l'Italia, meta d'eccezione per gastronomia e viaggi, non scherza. Le spese che i consumatori devono sostenere nelle strutture di ricezione italiane sono più elevate rispetto alla media europea di ben sette punti. In alcuni Stati dell'Est, invece, il quadro è completamente differente. Chi si ferma in un ristorante o in un albergo della Bulgaria (il fanalino di coda di questa categoria con 45 punti), spendemeno della metà di quanto pagherebbe in media nei 27 Paesi dell'Unione europea.